mercoledì 26 gennaio 2011

L'Ultimo Valzer

Due sono le grandi passioni di Martin Scorsese. La prima è ovviamente il Cinema, senza il quale probabilmente non potrebbe respirare, e la seconda è la Musica, senza la quale probabilmente non potrebbe divertirsi. Ed è fin dagli inizi della sua pluridecennale carriera che tenta in qualche modo di unirle, spingendosi persino a realizzare un videoclip. Ma sebbene di musicisti, concerti e show businnes abbia provato a parlare anche in ambito di fiction (New York, New York) è con il documentario che si è espresso al meglio, raggiungendo altissimi risultati. Una cosa che in fondo non deve stupire, perché quella di documentarista è un'attività che il regista italoamericano ha sempre coltivato e condotto in parallelo negli anni, senza mai trascurarla. E in questa sua più riservata diramazione autoriale spicca un filone, quello del documentario musicale, che proprio ne L'ultimo Valzer ha il suo primo e illustre esponente nel 1978. Da questa esperienza fondamentale fioriranno in anni recenti l'infinito (208 minuti) No Direction Home: Bob Dylan, che ripercorre i folgoranti anni '60 del menestrello di Duluth, e Shine a Light, che si limita invece ad essere la sontuosa e spettacolare proposizione di un concerto dei Rolling Stones. Senza dimenticare poi la fondamentale iniziativa The Blues, una serie di sette documentari sulla musica nata dagli afroamericani e divenuta anima dei profondi Stati Uniti, prodotti da lui e diretti da grandi registi altrettanto appassionati come Clint Eastwood, Wim Wenders, Mike Figgis, ecc...
Guardando questi nomi appare chiaro il perché un regista (intelligente come Scorsese) decida di fare un documentario invece di impegolarsi su una sceneggiatura, ed è per via del fatto che quando si hanno degli artisti del genere per le mani, e sotto gli occhi, nessuna finzione potrà mai eguagliare la realtà. E così, come sempre quando si parla di un documentario, arriva il momento in cui ci si stacca da chi l'ha realizzato e si dicono due parole sul soggetto.
The Band erano Robbie Robertson (chitarrista e leader carismatico), Richard Manuel (pianista e polistrumentista), Garth Hudson (tastierista, organista, polistrumentista e compositore), Rick Danko (bassista e violinista) e Levon Helm (batterista). Non ho citato nessun cantante, perché cambiavano da canzone a canzone (principalmente Helm e Danko) e perché nessuno di loro era nato per fare quello. Arrivati dal Canada nei primi anni '60, senza soldi e all'avventura, cominciano a suonare nei bar e nelle bettole, cambiando un nome al mese (Canadian Squires, Levon and the Hawks...) fino a che nel 1966 non accade qualcosa.
Bob Dylan, il nuovo idolo della musica folk, tradisce tutti i suoi appassionati, pugnalandoli con qualcosa di nuovo, bruciante e affilato, che si chiama Rock'n'roll. Pescando dal blues acido di Chicago, posa la chitarra acustica ed imbraccia la fender, abbandona l'armonia e suona l'armonica per stordire le orecchie, e si presenta ai concerti con una rock band al completo (fra cui i mitici Al Kooper e Mike Bloomfield). Il suo popolo si sente orfano e sperduto, e lui se la ride, producendo tre album che sono i suoi nervosi capolavori. Il problema sta nella reazione violenta che segue, tanto isterica quanto questa questa nuova musica. Dopo il set acustico con cui apre i concerti infatti, quando entra il resto della band e si comincia a pestare forte, la gente ulula e lancia cose sul palco, e mentre cantano Maggie's Farm al Newport Festival, Peete Seeger tenta di tranciare i cavi elettrici con un'accetta. Le cose non vanno bene. I musicisti che sono con lui non se la sentono più, e così va alla ricerca di qualcun altro da portarsi dietro, ed eccoli lì, quei canadesi. Loro sono altrettanto pazzi quanto lui, e così inizia uno dei tour più lunghi e famosi di tutti i tempi, che giunge anche in Europa, facendo sentire ai Bealtes le meraviglie di Bringing It All Back Home, Highway 61 Revisited e Blonde on Blonde. Un assaggio di quello che si poteva ascoltare in quelle serate di follia si può trovare sul doppio disco: The Bootleg Series vol.4: Bob Dylan Live 1966, The "Royal Albert Hall" Concert stampato nel 1998, che raccoglie lo storico concerto tenuto a Manchester, dove, dopo il primo set acustico, e poco prima di iniziare a suonare Like a Rolling Stone, qualcuno fra il pubblico gli urlò "Giuda!" e lui rispose "Non ti credo, sei un bugiardo" per poi girarsi verso la band e dire "Suonate maledettamente forte". E loro suonarono eccome (come si può notare nel sopracitato No Direction Home).

Dopo questo epico e massacrante tour, Bob si ritirò in una casetta nei pressi di Woodstock, dove ebbe un incidente in motocicletta, e per un annetto rimase al riparo dalle scene. Mentre il mondo veniva sconvolto dal famoso festival di Woodstock (che in realtà si tenne poco più in là) lui passò il tempo dedicandosi alla sua famiglia e alla vita in campagna, e ben presto lo raggiunsero gli amici canadesi, che affittarono una casetta rosa lì accanto.
Come un gruppo di scalcagnati amici passavano le giornate chiacchierando e passeggiando, cantando vecchie canzoni e componendone di nuove nello scantinato. Frutto di queste grezze sessioni è un disco che per anni è rimasto leggendario e nascosto: The Basement Tapes, che contiene composizioni di Dylan, Robertson e brani tradizionali. Ma la storia di questo disco è lunga e tortuosa, e richiede dello spazio tutto per sé. Sta di fatto che servì da fondamento per il primo e vero parto ufficiale della Band (niente di più semplice, in fondo tutti li conoscevano come la band di Dylan), il capolavoro: Music From The Big Pink nel '68. Un album ancora fortemente debitore del tempo passato con Bob, che firma i brani più riusciti nonché la copertina, consistente in uno dei suoi dipinti.
Da lì in poi inizia il loro cammino autonomo e ufficiale nell'olimpo del rock, con una piccola rimpatriata con Dylan nel '74, per realizzare Planet Waves (ancora un suo dipinto in copertina) e relativo tour, raccolto nel doppio Before the Flood, un live immenso e straordinario, che brilla della travolgente energia che caratterizza la voce di Bob in quegli anni. Dopodiché lui si ritira nel dolore del suo divorzo, realizzando l'album d'amore più struggente di tutti i tempi: Blood on the Tracks, mentre la Band prosegue il suo impetuoso cammino. Ma dopo tutte quelle avventure sempre in tour, arriva il momento per Robertson e co. di farla finita, e qui entrano in scena Scorsese e The Last Waltz. Il 25 novembre 1976 The Band dà l'addio al suo pubblico sul palco del Winterland, a San Francisco, in un concerto memorabile, una celebrazione a cui partecipano tutti i loro amici. Chiamano Scorsese a riprendere, e lui ne fa uno dei più bei film del rock, piazzando le telecamere ovunque, e dietro ad esse alcuni dei migliori direttori della fotografia in circolazione: Michael Chapman, Vilmos Zsigmond e Làszlò Kovàcs (in modo analogo a come farà anni dopo con Shine a Light).
Sul palco scorrono uno dopo l'altro Ronnie Hawkins che urla come un matto; Neil Young curvo sulla chitarra; Joni Mitchell angelica; Paul Butterfield che suona l'armonica prima in Mystery Train  e poi in Mannish Boy insieme al leggendario Muddy Waters, ed Eric Clapton che fa una sfida all'ultimo assolo con Robertson. E fra Neil Diamond impassibile, Dr. John divertito e Van Morrison scatenato e abbigliato in modo inguardabile, trovano spazio anche gli interventi di Michael McClure e Lawrence Ferlinghetti che recitano poesie, quest'ultimo adattando il "Padre Nostro" ad un inno blasfemo. Tutto ciò viene inframezzato da interviste abbozzate da Scorsese a Robertson, racconti di aneddoti, vecchie storie di donne, musicisti e risse da bar, in un'atmosfera polverosa di cocaina. Alla fine poi, quando entra in scena Bob con il cappello bianco piumato, i capelli ricci e il giubbotto di pelle, si sente un fremito, un cambio d'atmosfera. Mentre inizia Forever Young, e lui sorride e gli altri suonano in modo automatico, in memoria dei tempi passati, sembra che si torni a un periodo dorato in cui tutto era perfetto. Si passa a far casino con il reprise di Baby Let Me Follow You Down e si chiude come meglio non si poteva, con I Shall Be Released, dove si aggiungono Ronnie Wood e Ringo Starr. Bob e Van Morrison cantano allo stesso microfono, Eric Clapton suona accanto a Robertson, si battono le mani e si grida il ritornello. Applausi.
Scorsese tiene lunghe inquadrature sui volti, come ipnotizzato dal carisma dei presenti, gioca coi fuochi ma non prende rischi o s'impegola in virtuosismi. Sopraffatto dal volume della musica propone una regia grezza e immediata nelle fasi del concerto, ma ha anche l'intuizione di realizzare degli spezzoni da documentare con tutta calma. Usa le gru, la steady e le carrellate per riprendere le versioni studio di The Weight (che possiamo ascoltare in Easy Rider) con gli Staple Singers ed  Evangeline con una bucolica Emmylou Harris. Sequenze fumose e suggestive, staccabili dal contesto e godibili a parte, come splendidi videoclip. Ed è con uno di questi che chiude il film, con la Band che suona il tema dell'ultimo valzer, e la cinepresa che si allontana dolcemente, fra le luci soffuse e la morbidezza della musica, abbandonandoli al regno della memoria.
Un film strano e imperfetto, come tutti quelli del miglior Scorsese, agitato, passionale, rombante e infuocato. Non si capisce come abbia fatto, ma in queste immagini e queste facce, ha trovato il modo di raccontare qualcosa che non si può spiegare: la musica Rock.



PS. Lo sapevate che Robbie Robertson, il giornalista del Daily Bugle amico di Spider-Man, fu chiamato così da Stan Lee in onore al musicista?

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