lunedì 9 gennaio 2012

Museo del fotogramma 6


Hunger

di Steve McQueen
Regno Unito, Irlanda - 2008


Stavolta dico qualcosa e metto un po' di immagini in più, perché c'è la considerevole possibilità che non l'abbiate visto, in quanto in Italia (unico paese in Europa) non è stato distribuito. Hunger  è l'esordio nel lungometraggio del videoartista inglese Steve McQueen (che uno dice: ma no! Proprio come l'attore! e poi si confonde) che ha un trascorso di una certa importanza in veste di scultore, videomaker, documentarista e artista a tutto tondo, suvvia. Questo suo primo film è stato scritto da lui e dalla grande drammaturga e sceneggiatrice Enda Walsh, ed è incentrato sull'esperienza degli attivisti nordirlandesi nel carcere di Long Kesh fra la fine degli anni '70 e l'inizio degli '80. In particolare, dopo un inizio straordinariamente suggestivo, viene raccontata l'atroce epopea di Bobby Sands, in una cronaca spietata dei suoi 66 giorni di sciopero della fame.

Un paio di interessanti articoli su regista e film sono qui e qui. Io, francamente, lo ritengo talmente potente da non riuscire a farne un'analisi seria in poche righe. Come succede solo per certe grandi opere, si può solo elencare quello che vedi. Qui si inizia con una serie di inquadrature di straordinario impatto, elaborate al millesimo (ed ecco che emerge l'occhio dell'artista) in funzione sia della narrazione sia di una certa sfera di sensazioni. Il regista sta dicendoci delle cose che capiremo solo più avanti, ma lo fa con una forza da lasciarle ben impresse. Dopo il pedinamento del primo personaggio si passa al secondo, che diventano "i secondi"; il contesto e le motivazioni si fanno più chiari, e nel modo più naturale possibile ci spostiamo ancora una volta su quello che sarà il protagonista, senza mai lasciare indietro i primi.
Tutto questo avviene in larga parte senza un grosso dispendio di parole, McQueen parla per immagini entrando a fondo nel linguaggio del cinema, alla sua base e nei suoi strumenti.
La terza parte del film sarà, come detto, il calvario perfettamente ritmato della fame di Bobby Sands, di nuovo senza parole e con la musica ridotta a elemento sonoro.
Ma fra queste due cornici di enorme silenzio e spaventosa brutalità, si inserisce un dialogo ininterrotto di 22 minuti, con i due interlocutori tenuti perennemente in figura intera. L'intenso fraseggio, vero tour de force attoriale, rimane sempre in equilibrio fra la sensazione di invadenza dello spettatore, quella di disagio, e quella opposta di partecipazione attenta, quasi ipnotica, che i dialoghi suscitano. Appena il fraseggio finisce e Bobby Sands inizia a raccontare un ricordo, la cinepresa si dispone sul suo primo piano per non lasciarlo più, aggrappandosi ai suoi occhi sofferenti e alle ferite del suo (non a caso) bellissimo volto martoriato.
McQueen si rende capace di finezze come quella di questa scena qui accanto, in cui nella parte destra dello schermo il tempo scorre naturalmente, mentre nella sinistra, il momento della violenza viene amplificato, rendeno evidente la sensazione emotiva del personaggio.
Un esempio per il tutto, perché questo film si divide abilmente fra rigore ed emotività. All'interno della cornice di controllo delle immagini, esplodono le passioni, talvolta feroci, talvolta di sofferenza, degli uomini.
Un film dove la morte si fa metafora, dove lo sporco (piscio e merda, in sostanza) diventano rappresentazioni metafisiche, e dove il nemico (la Tatcher) aleggia invisibile come un male superiore, sovrastante e senza pietà. Dove la cinepresa diventa un corvo irrequieto su di un corpo scheletrico, e il malessere dei silenzi può farsi più forte che nelle agghiaccianti scene di lotta.
Io sono dell'idea che bisogna sapere il meno possibile della trama di Hunger, perché quando si trova finalmente qualcuno che sa narrare così bene, è un peccato rovinarsi il viaggio. Mi limito solo a consigliare più che caldamente il suo recupero, perché raramente ho visto pellicole del genere. Per l'intelligenza delle inquadrature, la versatilità del montaggio, e la potenza del suo messaggio, va molto oltre lo stato di sorprendente opera prima, rivelandosi come il grande capolavoro che è.
Inoltre ho finalmente capito perché Fassbender è l'attore più richiesto del momento. Tutti i premi che lui e il film hanno vinto sono pochi. Qui il cinema si fa arte, e avrebbe dovuto essere il caso dell'anno 2009, mentre invece lo fu Avatar.
Uno di quei film che non ti dimentichi (come questa immagine), e che entrano come bulldozer nella tua top ten.

PS: La prossima settimana esce l'opera seconda di McQueen: Shame, ancora in coppia con Fassbender che intrerpreta un prigioniero del sesso. Chevvelodicoaffà.

1 commento:

  1. Non rammento un tale entusiasmo dalla volta che picconasti un clone di Charlize Theron con una cozza parlante al posto d'una thettha... quando mi capita di vederlo prenderò dei farmaci di precauzione

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